2017/08/05
Quando Napolitano ascoltava il grido di dolore
(da "La Nuova Bussola Quotidiana")
Tengono banco le parole del presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano sulla decisione di entrare in guerra contro la Libia. Decisione che l'ex esponente comunista ha addossato a Berlusconi provocando la vibrata reazione di molti esponenti del centro destra. Ma come andarono le cose? E davvero Napolitano non c'entrò nulla in quella operazione che già allora si profilava essere un autogoal per i nostro Paese? C'è chi, in tempi non sospetti, l'aveva detto, commentando proprio le parole di Napolitano che parafrasò proprio "le grida di dolore" di ottocentesca memoria. E' la studiosa di storia del Risorgimento Angela Pellicciari, corsivista della Nuova BQ, che in un articolo pubblicato su Il Tempo di Roma commentava proprio questo endorsement dell'allora inquilino del Quirinale sulla Libia. Lo ripropniano per i lettori della Bussola e per gli smemorati di oggi.
Hanno dell’incredibile gli accenti accorati con cui Napolitano ha rievocato le “grida di dolore” che si levavano verso i Savoia dall’Italia centro-meridionale. A detta di questa leggenda gli italiani “gemevano” invocando la liberazione che sicuramente sarebbe venuta dal nord sabaudo.
La liberazione è costata alla Sicilia reiterate dichiarazioni di stato di guerra e di legge marziale. Gli abitanti dell’Italia meridionale sono stati costretti all’emigrazione di massa dai governi liberatori che, invece della tanto sbandierata libertà, hanno portato corruzione, sopruso e miseria. Ha dell’incredibile, ripeto, che un Presidente della Repubblica che ha alle spalle una decennale militanza nel partito comunista che quelle grida, con Gramsci, irrideva, e che non si è ribellato alla carneficina del popolo cecoslovacco invaso dalla liberatrice armata sovietica, ha dell’incredibile, ripeto, che questo presidente, con questa tradizione alle spalle, si spenda tanto accoratamente per difendere le grida di dolore del popolo libico assediato a Bengasi. Perché finalmente gli stati si armino e vadano alla guerra contro Gheddafi. Contro quel Gheddafi che tutti, assolutamente tutti i governi della repubblica di ogni colore, hanno rincorso pur di garantirsi vantaggiosi accordi commerciali.
Ricordava Francesco Agnoli sul Foglio del 17 le parole pronunciate da Palmiro Togliatti nel corso del XVI congresso del PCUS: il migliore irrideva con disprezzo la propria ridicola e mandolinesca italianità per inneggiare alla gloriosa appartenenza all’universo sovietico staliniano. Dovevamo aspettare un governo a guida dell’ex (mai rinnegato) comunista D’Alema per fare la guerra alla Serbia senza dichiarazione di guerra in obbedienza al dictat americano. Adesso ci risiamo. Ma chi ci garantisce dell’autenticità delle grida di dolore? L’esperienza dovrebbe insegnarci che più la retorica insiste sulla moralità di un’azione di guerra più la faccenda è dubbia.
In particolare: ci si rende conto di cosa questa guerra significhi per l’Italia? E se, l’ho già scritto, questi insorti non fossero affatto da compiangere e sostenere? E se dietro una vernice di presentabilità avanzasse quel terrorismo islamico che Gheddafi ha negli ultimi tempi combattuto con estrema determinazione? A Bengasi, in particolare, reiterate sono state negli ultimi anni le azioni di guerra notturne di commandi islamici. Da noi poco se ne è saputo, ma questa è la dura e cruda realtà.
Quando è in gioco la vita di tante persone converrebbe usare davvero quella modestia e quella prudenza che pure Napolitano ha invocato. Converrebbe smetterla di far finta di niente per continuare a giocare alle anime belle.
Continua a leggere ⇢2017/06/27
Marcia indietro fratelli
(da "La Verità")
Qualche decennio fa’, dal parrucchiere, mi è capitato di sfogliare una rivista patinata in cui si esaltava la bellezza del multiculturalismo di stampo newyorkese di cui veniva auspicata la diffusione in ogni angolo della terra. Era la prima volta che vedevo affermato come buono un simile stile di vita e ho fatto fatica a capire. Mi sfuggivano i termini del discorso. Sono restata come in un limbo in cui non comprendevo in cosa consistesse la bellezza dell’affiancamento, l’una accanto all’altra, tutte poste sullo stesso piano, di differenti culture, religioni, convinzioni. Ero ingenuamente abituata a pensare diversamente. Nel frattempo sono cresciuta. Da allora fino ad oggi, a parte un piccolo numero di persone, giornalisti, intellettuali, sacerdoti, nessuno ha difeso come la migliore di tutte la nostra cultura, la nostra religione, la nostra tradizione. Nessuno salvo, in qualche solitaria uscita, Berlusconi. Naturalmente circondato dall’irrisione generale. A parlare era l’impresentabile, l’incivile, lo stolto del villaggio.
Oggi qualcuno comincia piano piano, per non fare troppo rumore, per non dover apertamente praticare l’autocritica, a fare marcia indietro. Enough is enough, ha scandito Teresa May. Oggi sono in diversi a scriverlo: il multiculturalismo ha dato la possibilità all’islam di creare oasi protette da cui partire per seminare terrore e soggiogare le società aperte, tolleranti, pronte ad accettare tutto. E infatti, in nome dell’uguaglianza e dell’equipollenza di tutte le opzioni di vita, è stata permessa la costituzione in Europa di enclaves islamiche in cui vige la sharia, spesso la poligamia, in cui cinquantamila ragazze sono state “purificate” con mutilazioni genitali, in cui è praticata la combinazione di matrimoni con quasi-bambine, o l’uccisione di quanti si convertono. Si è arrivati in Gran Bretagna, ma non solo lì, a tollerare una rete che per anni ha organizzato la sodomizzazione di ragazzi da parte di ricchi pakistani. Rete che la polizia, al corrente del traffico, si è ben guardata dallo smantellare non volendo rischiare l’accusa di razzismo islamofobo. In nome del multiculturalismo abbiamo accettato stili di vita barbari da cui la nostra cultura cristiana ci ha da quasi due millenni liberato.
Il punto allora è: da quale fonte, da quale ispirazione, è penetrata in occidente, in America come in Gran Bretagna e, di lì un po’ ovunque, la convinzione che tutte le religioni e le culture siano equivalenti? A chi è stato utile il multiculturalismo? Chi lo ha pubblicizzato come la migliore delle scelte di civiltà (espressione ripetuta come un mantra)? Nel 1723 il pastore presbiteriano James Anderson scrive le Costituzioni dei liberi muratori e specifica che “la Massoneria diviene il Centro di Unione, e il mezzo per conciliare sincera amicizia fra persone che sarebbero rimaste perpetuamente distanti”. La Gran Bretagna si avvia a governare un impero largo quanto il mondo, esteso a tutti i continenti. Cosa tiene unito l’impero, quale il collante ideologico di tradizioni e religioni diversissime avendo escluso l’evangelizzazione, avendo escluso la fede? Se non c’è una fede condivisa, cosa accomuna madrepatria e colonie? Cosa li rende compatibili? In assenza di quello religioso, si impone la necessità di trovare un minimo comun denominatore di tipo culturale e non c’è dubbio che il mondo delle logge abbia approntato un solido denominatore comune di tipo culturale. Quando si parla di logge si parla di diverse “obbedienze” e infatti al loro interno vige la pratica di un’obbedienza giurata, ferrea. Quando per qualche ragione l’obbedienza viene meno, quando non si riesce a controllare una fetta consistente della popolazione mondiale e quando questa mette a repentaglio la convivenza di tutti, allora “enough is enough”. Gli islamici, lo stiamo imparando, non vogliono convivere, vogliono dominare. In nome di Allah. E, bisogna dargliene atto, hanno ragione. Fanno bene a smascherare il buonismo della nostra dabbenaggine multiculturale. Vedremo come va a finire.
Continua a leggere ⇢2017/06/02
La santità virile di Giovanni Paolo II
(da "La nuova bussola quotidiana")
Il tempo passa e porta via anche le cose belle. Eppure quando si parla di Wojtyla, quando si racconta qualcosa di lui, la memoria, la gratitudine e la commozione tornano in fretta. Succede leggendo il libro che gli hanno dedicato il suo fotografo e un sacerdote polacco che gli è stato spesso a fianco (Robert Skrzypczak\ Arturo Mari, Toccare la santità, Il cammino umano e spirituale di Giovanni Paolo II, Fede e Cultura, 283 pp, 19 euro). Un libro attento a tutte le tappe della vita del papa santo, a partire da quelle che lo vedono vescovo, vescovo al concilio, vescovo quasi sconosciuto poi stimato e apprezzato relatore all’assemblea, quindi papa. E papa globetrotter, sempre immerso nella preghiera, con la vita minacciata ogni minuto, senza un attimo da dedicare a sé.
"LEI E'UN CRIMINALE!" - Mentre leggiamo passano sotto i nostri occhi le immagini delle pagine di storia scritte in tante parti del mondo. Così, in Nicaragua, le parole sdegnate rivolte al sacerdote Ernesto Cardenal, ministro del governo sandinista violento e anticristiano: “E lei, padre, che cosa sta facendo qui? Questo non è il suo posto, il suo posto è in parrocchia, al servizio per la povera gente. Non qui!”. Oppure quando, il 9 maggio 1993, alla valle dei templi di Agrigento si rivolge alla mafia gridando: “Voi, maledetti! La mafia che uccide la gente, la mafia che uccide i bambini, la mafia che uccide le famiglie!”, “Ricordate che un giorno renderete conto a Dio di tutto quello che avete fatto! Soltanto lui sarà il giudice della vostra vita. Vergognatevi, assassini!”. Cose note e cose rivelate da chi, come Arturo Mari, gli sta sempre vicino. E così, a Khartum, in Sudan, il 10 febbraio 1993, quando dopo aver ordinato al sacerdote arabo che faceva da interprete: “Adesso lei tradurrà alla lettera tutto quello che io dirò”, scandisce davanti al dittatore che regge uno stato imbarbarito dalla violenza: Egregio Signor Presidente “Lei è un criminale! Ma un vero criminale! Si ricordi, che un giorno lei dovrà rendere conto a Dio di questo misfatto che sta facendo. A Dio! Se lo ricordi! Lei fa uccidere fratelli, bambini, donne… Un giorno lei si vergognerà davanti a Dio di tutto questo”.
AMATA ROMA - O anche, e in un contesto del tutto diverso, l’episodio di un bambino di 9 anni che scappa di casa per fare gli auguri al papa senza aspettare la mamma che rischia di fargli fare tardi perché impegnata in una toletta che dura ore. O la perla dell’amore di Wojtyla per Roma: “Quando pregava nel suo studio, lo faceva sempre stando in piedi e davanti la finestra, guardando la sua Roma. Perché il Santo padre la chiamava la sua Roma. Dopo un quarto d’ora, concludeva la sua giornata benedicendo la città. Salutava Roma. E la città di Roma lo sapeva e gli è stata sempre riconoscente”.
DIO E' COMUNIONE FISICA - E oltre agli episodi, noti o sconosciuti, lo splendore della fede e dell’elaborazione filosofica e teologica di Wojtyla. In particolare del personalismo e della teologia del corpo: “L’uomo è divenuto immagine e somiglianza di Dio non soltanto attraverso la propria umanità, ma anche attraverso la comunione delle persone, che l’uomo e la donna formano fin dall’inizio. L’uomo diventa immagine di Dio non tanto nel momento della solitudine quanto nel momento della comunione”; “la nostra sessualità è più importante di quanto non immagini la rivoluzione sessuale. La descrizione dell’amore fisico come un’immagine della vita interiore di Dio ha iniziato a malapena a prendere forma nella teologia, nella predicazione e nell’educazione religiosa della Chiesa”.
IN TEMPI DI SCONFORTO - E poi i miracoli, i tanti miracoli, il perdono dato subito dopo l’attentato al proprio carnefice, dall’ospedale, e ribadito nell’incontro in carcere, e il vangelo della sofferenza. La sofferenza che il papa ha capito necessaria al successore di Pietro per annunciare il vangelo. In tempi di tanta cupezza, sconforto, confusione –anche nella chiesa-, il ricordo del papa polacco fa respirare. Che dire? Un libro bello. Che fa piacere leggere. Che si legge con la leggerezza, il sorriso, la levità che appartiene alle cose di Dio, quelle sante.
Continua a leggere ⇢2017/04/23
"Teo-Grillini", la sintesi impossibile
(da "La Nuova Bussola Quotidiana")
Era già strano che i funerali di Gianroberto Casaleggio si fossero svolti in chiesa, così, come se niente fosse. Come se il suo pensiero, invece che gnostico in modo aperto, non contasse nulla. Senza pubblica ritrattazione degli errori, senza pubblico pentimento. Adesso è arrivata da duplice fonte, Avvenire e il suo direttore Tarquinio intervistato dal Corriere, l’apprezzamento della bontà di molte delle posizioni dei 5 stelle. Movimento che lo stesso nome “5 stelle” avrebbe dovuto indurre a qualche attenta considerazione essendo sia il numero 5 che le stelle patrimonio ideale delle sette massoniche delle varie osservanze.
Se la cosa non fosse tragica, sarebbe ridicola. Basterebbe questo singolo episodio per giustificare quanto i detrattori della chiesa, Lutero in testa, hanno detto e scritto sull’unica ragione che conta davvero per i preti: i soldi. In questo caso l’8 per mille.
Morto Gianroberto i pentastellati, cioè il figlio Davide, hanno creato un sistema operativo dal nome importante: Rousseau. La leggenda della rete, dell’uno vale uno, della democrazia diretta, non poteva essere rappresentata meglio. Che cosa voleva Rousseau? Il noto pedagogista che, avendo 5 figli, tutti e cinque li ha mandati in orfanotrofio perché il suo tempo era troppo prezioso per essere dedicato a bambini, ha descritto con precisione in cosa consiste la vera democrazia. La democrazia diretta, senza inutili mediazioni.
Nel rispetto della democrazia Rousseau, nel Contratto sociale pubblicato nel 1762, definisce in questi termini il concetto di “volontà generale”. In cosa consiste questa espressione che suona tanto bene? “La volontà generale si propone l’interesse comune”: è pertanto quella volontà che “è, o deve essere, il vero motore del corpo sociale”. Chi incarna la volontà generale? Rousseau risponde: la volontà generale è il risultato del patto di unione fra uguali che produce “l’alienazione totale di ciascun individuo con tutti i suoi diritti alla comunità”, dando vita ad “un corpo morale e collettivo” che riceve unità, “il suo io comune, la sua vita e la sua volontà”, dal patto originario. Ancora: “Colui che osa prendere l’iniziativa di fondare una nazione, deve sentirsi in grado di cambiare, per così dire, la natura umana”; bisogna “che egli tolga all’uomo le forze che gli sono proprie, per dargliene altre che gli sono estranee”. Dal momento che lo “io comune” di cui parla Rousseau non esiste, la conseguenza inevitabile e logica della sua filosofia è il totalitarismo: “Tutti ugualmente hanno bisogno di una guida” (tutti, sia i singoli che la collettività); perché il patto sociale non sia “una vana formula”, “chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo; ciò non significherà altro che lo si obbligherà ad essere libero”.
Questa splendida trovata che permette, in nome della libertà, la totale sottomissione dell’individuo ai voleri dello Stato, cioè al gruppo di potere che lo governa, è stata messa in pratica alla lettera dalla rivoluzione francese che nell’articolo 6 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dichiara: “La legge è espressione della volontà generale”. Bisogna dire che la prassi del movimento 5 stelle va perfettamente d’accordo con la teorizzazione della volontà generale. Mai nome fu più adatto di quello di Rousseau. A quanto mi risulta, al contrario, mai prima d’oggi la Chiesa ha avuto simpatia per le frasi ad effetto delle avanguardie rivoluzionarie.
Continua a leggere ⇢2017/03/01
Lutero, quando la misericordia è contro la verità
(da "La Nuova Bussola Quotidiana)
Non so quanti siano i lettori dell’Osservatore Romano, a quanto si dice non molti. Per parte mia leggo solo gli articoli che, di tanto in tanto, mi vengono segnalati. Mi è capitato così, diversi anni fa, di manifestare qualche sconcerto di fronte al tentativo di recuperare il Marx buono, come al plauso (scritto da un vescovo) della massima cavouriana ‘libera Chiesa in libero stato’ letta alla maniera di Spadolini.
In questi giorni mi è stato segnalato un pezzo su Lutero, una pagina dal titolo “La storia momento di riconciliazione”. “Dall’animo tormentato di un uomo in cerca di un Dio da cui ricevere misericordia, nasce un seme di discordia”, scrive l’autrice Caterina Ciriello. Ohibò! Che ci si sia dimenticati della massima evangelica: “Li riconoscerete dai frutti”?
Tanti buoni sentimenti, tante buone e pie parole, tanto pellegrinaggio fra storia, arte, sapienza teologica, tanta santa contrapposizione tra l’opposizione che un tempo divideva cattolici e protestanti e la ritrovata comunione di oggi! Un articolo pieno di santi propositi e di buone intenzioni di volersi bene non andrebbe commentato. Ma è comparso sull’Osservatore.
E allora giusto qualche pensiero in ordine sparso: Ciriello dà notizia di un convegno internazionale, “Rileggere la Riforma”, tenutosi a Firenze dal 20 al 22 febbraio. I protestanti avrebbero ammirato la magnificenza artistica della cattolica Firenze, magnificenza che loro hanno perso per sempre grazie all’iconoclastia del monaco in cerca della misericordia di Dio.
Verissimo. Epperò ci si scorda di dire che, mentre Lutero è ferocemente iconoclasta (non è un particolare da poco perché - lo sappiamo da sempre e in particolare dalle opere di San Giovanni Damasceno - distruggere le icone significa negare le basi stesse del cristianesimo, perché equivale a mettere fra parentesi l’incarnazione), allo stesso tempo è invece un fervente cultore delle immagini, quelle che nel corso dei decenni elabora insieme a Cranagh per rendere plasticamente evidente ai rozzi tedeschi quale satanica sentina del vizio sia la Chiesa cattolica con tutto il suo apparato di papi, cardinali, vescovi e religiosi. Immagini orribili, disgustose, che faranno scuola ai rivoluzionari di tutte le epoche. Xilografie che Lutero vuole impreziosiscano le case del maggior numero possibile dei tedeschi per insegnare loro con mezzi semplici ed efficaci qual è il sentimento che va nutrito nei confronti di Roma: l’odio.
Ciriello finisce il pezzo con una frase ad effetto: “‘Come posso avere un Dio misericordioso?’ si chiedeva Lutero. Oggi, forse, chi ancora definisce Lutero il “demonio” che ha diviso la Chiesa, neppure si preoccupa di Dio”.
Qui basterebbe ricordare qualcuno degli epiteti riservati dal cercatore del Dio misericordioso ai papi (asino, cane, re dei ratti, drago, coccodrillo, larva, bestia, drago infernale) e soprattutto rileggere i primi due dei “sette consigli salutari” da lui indirizzati ai principi per chiarire cosa fare nei confronti degli ebrei. Primo: “è cosa utile bruciare tutte le loro Sinagoghe, e se qualche rovina viene risparmiata dall’incendio, bisogna coprirla di sabbia e fango, affinché nessuno possa vedere più nemmeno un sasso o una tegola di quelle costruzioni”. Secondo: “siano distrutte e devastate anche le loro case private. Infatti, le stesse cose che fanno nelle Sinagoghe, le fanno anche nelle case”.
Continua a leggere ⇢2017/02/26
A proposito di soppressioni
(da "La Nuova Bussola Quotidiana)
La lettura del bel pezzo di mosnignor Livi sulla Bussola del 24 febbraio (clicca qui) mi ha fatto venire in mente qualche considerazione sulla soppressione degli ordini religiosi decisa dalla Chiesa nel corso dei suoi due millenni di storia.
Due sole volte il Papa ha soppresso ordini religiosi regolarmente costituiti: la prima nel 1312, la seconda nel 1773. Nel primo caso si trattava dei Cavalieri Templari, nel secondo dei Gesuiti. Quella dei Templari, ordine monastico la cui regola è stata scritta da Bernardo di Chiaravalle, è una storia per tanti versi drammatica su cui ancora oggi si discute e che negli ultimi secoli è stata ammantata di fantasiose leggende e racconti esoterici.
La soppressione dei Tempari è voluta da Filippo IV il Bello re di Francia che, oltre ad imporre con ricatti e minacce a Clemente V la permanenza del papato in Francia, è anche all’origine di una violenta quanto illegale congiura ai danni dei Cavalieri del Tempio. In una notte del 1307 Filippo fa arrestare e torturare tutti i Templari francesi accusati di eresia e tradimento, nonostante siano membri di un ordine religioso e quindi soggetti unicamente alla giurisdizione della Santa Sede. Numerosi cavalieri, compreso il gran maestro Jacques de Molay, ammettono sotto tortura come vere le colpe di cui sono accusati.
Successivamente trovano il coraggio di appellarsi al papa e, di fronte al tribunale pontificio, ritrattano le confessioni loro estorte: l’ordine è santo. A quel punto Filippo ha gioco facile a farli finire sul rogo come relapsi (spergiuri). I Templari sono soppressi al Concilio di Vienne del 1312 ma la vittoria del re di Francia non è completa perché Clemente V non gli consente di appropriarsi di tutti gli ingenti beni dei Cavalieri che finiscono ad un ordine affine, quello dei Cavalieri di Malta.
Qualche secolo più tardi, il 21 luglio 1773, un altro Clemente, il quattordicesimo, col breve Dominus ac redemptor sopprime in perpetuo – così vuole che avvenga - la Compagnia di Gesù e condanna il generale Lorenzo Ricci a carcere duro, cioè a pane e acqua, nella prigione di Castel Sant’Angelo. In questo caso a pretendere la soppressione della Compagnia sono praticamente tutti i re della cristianità.
L’influenza delle logge è capillarmente penetrata a corte e i sovrani, illuminati dal bagliore dei filosofi neopagani, vogliono farla finita con i gesuiti. Si comincia dal Portogallo dove il massone marchese di Pombal lancia una campagna diffamatoria contro la Compagnia accusata di aver cospirato contro la vita del re, e nel 1759 ottiene la loro soppressione, l’incameramento dei loro beni, la brutale espulsione dei gesuiti stranieri, il carcere duro per quelli portoghesi, uno dei quali, l’anziano Malagrida, ucciso. Seguono le corti di Francia, Spagna (dove un’insurrezione popolare è imputata ai gesuiti), Italia e Austria. Gli eserciti di Francia e Napoli invadono i territori pontifici di Avignone e Benevento, ma, mentre Clemente XIII resiste ai dictat, non altrettanto farà il suo successore.
Giuseppe La Farina, storico massone, così commenta la decisione di papa Ganganelli nella sua Storia d’Italia del 1863: “Colla soppressione dei Gesuiti si consumò la ribellione dei principi contro il Papato, e colla bolla del 21 di luglio si compì l’abbassamento del papa innanzi ai principi”, “giammai la libertà ha avuto nemici più terribili dei Gesuiti, giammai il Papato milizia più operosa e più intrepida: la bolla di papa Ganganelli non fu una riforma, ma una capitolazione imposta dal vincitore”. Bisognerà aspettare il 1814 perché Pio VII appena rientrato a Roma si affretti a ricostituire la Compagnia che, durante tutto l’Ottocento, sarà infaticabile baluardo delle ragioni cattoliche contro la libera-muratoria imperante. Nel Novecento le cose andranno progressivamente cambiando.
Chissà perché mi è venuto in mente di parlare di soppressioni a proposito delle considerazioni fatte da Livi. Forse perché ad esigere la soppressione di ordini scomodi sono sempre state le potenze di questo mondo. Ora invece è diverso. Ora il pensiero del mondo ha messo salde radici all’interno della Chiesa.
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